Articoli su Giovanni Papini

2016


Elisabetta Rossi

Giovanni Papini; l'intellettuale “teppista”

Pubblicato in: ‘900 Letterario.
Data: 8 ottobre 2016




Giovanni Papini nasce a Firenze nel 1881 in un’Italia che viene definita “l’Italia delle due guerre”, e muore nella sua città d’origine nel 1956. In questo preciso momento storico l’intellettuale sente il bisogno di trasformare radicalmente la cultura e la letteratura. La città fulcro di questa necessità è Firenze dove la giovane generazione degli intellettuali vuole diffondere le proprie idee e i propri programmi attraverso la fondazione di riviste. La più importante tra le prime riviste fiorentine è il «Leonardo» nata nel gennaio del 1903 sotto la direzione di Giovanni Papini e di Giuseppe Prezzolini, e uscita fino all’agosto del 1907.

Il «Leonardo» ha un taglio nettamente filosofico, e propone un programma di svecchiamento culturale. I due direttori sono influenzati dall’estetismo dannunziano e dall’irrazionalismo decadente di un’altra rivista «Il Marzocco». Quando nel 1907 il «Leonardo» cessa le pubblicazioni a causa delle diverse vedute dei direttori, Papini si indirizza verso le teorie spiritualistiche ed esoteriche mentre Prezzolini cerca un collegamento tra la ricerca filosofia e l’impegno intellettuale fondando nel 1908 un’altra rivista «La Voce», che dirige fino al 1914 con l’aiuto occasionale di Papini. Nel 1911 Papini si stacca definitivamente dalla rivista collaborando con Giovanni Amendola alla fondazione de «L’anima», che si basa su un’autonoma ricerca di tipo spiritualistico e religioso. Tuttavia questa collaborazione non dura a lungo e Papini fonda nel 1913, con Ardengo Soffici, la rivista «Lacerba», che diviene l’organo del futurismo guidato da Aldo Palazzeschi.

Giovanni Papini e la figura dell’intellettuale

Il processo di industrializzazione determinò una crisi dei ruoli umanistici tradizionali. L’atteggiamento degli intellettuali risultò differente e determinò lo sviluppo di diversi movimenti letterari: i crepuscolari che tendevano a negare i ruoli tradizionali rifiutando la figura del poeta-vate, i futuristi che dichiaravano esaurito il ruolo umanistico degli intellettuali, il valore dell’uomo di cultura stava nell’anticipazione del futuro. I vociani, che promuovevano una figura dell’intellettuale omologa all’industria e integrata nello sviluppo della modernizzazione. Un’altra è stata la via inaugurata da Giovanni Papini che, nonostante la formazione umanistica, viene influenzato da d’Annunzio e dalle avanguardie. Questo ha determinato una mescolanza di argomenti ed ideali. Sulla linea dannunziana e umanista Giovanni Papini propone un ruolo dell’ intellettuale-ideologo e di poeta-vate che sia protagonista, ma nel contempo, a causa dell’impotenza ad assolvere tale ruolo, sfoga la propria frustrazione in atteggiamenti iconoclasti e provocatori. Egli ha sviluppato dunque un tipo di intellettuale chiamato “teppista”, un intellettuale piccolo borghese che si compiaceva di scandalizzare ma che mirava al riconoscimento sociale e al potere. La sua figura dell’intellettuale viene sintetizzata nel Discorso di Roma del 1913 pronunciato in un teatro durante una manifestazione futurista:

Qualcuno, che s’immagina di conoscermi, si meraviglierà, forse, di vedermi qui, in mezzo ai futuristi, pronto e disposto a urlare coi lupi e a ridere coi pazzi (benissimo). Ma io, che mi conosco assai meglio di chiunque altra persona, non sono affatto sorpreso di trovarmi in così cattiva compagnia (bravo!). Da quando, dieci anni fa, sono scappato da quelle case di perdizione che son le scuole (primi urli) per buttar fuori quel che avevo accumulato in un lungo incubamento di solitudine ho avuto sempre il vizio di star dalla parte dei matti contro i savi; con quelli che mettono il campo a rumore contro quelli che voglion stabilire il pericoloso ordine e la mortale calma; con quelli che hanno fatto ai cazzotti contro quelli che stanno alla finestra a vedere ( gridi svariati). Mi hanno chiamato ciarlatano, mi hanno chiamato teppista, mi hanno chiamato becero ( bene!). Ed io ho ricevuto con inconfessabile gioia queste ingiurie che diventano lodi magnifiche nelle bocche di chi le pronunzia. Io sono un teppista, è arcivero (verissimo!). M’è sempre piaciuto rompere le finestre e i coglioni altrui (vocìo enorme) e vi sono in Italia dei crani illustri, che mostrano ancora le bozze livide delle mie sassate (proteste, alcune signore si alzano). Non c’è, nel nostro caro paese di parvenus, abbastanza teppismo intellettuale. Siamo nelle mani dei borghesi, dei burocratici, degli accademici, dei posapiano, dei piacciconi (gridìo confuso). Non basta aprire le finestre – bisogna sfondar le porte. Le riviste non bastano ci voglion le pedate (approvazioni ironiche). Per questo mio stato d’animo, per questa mia nativa ed invincibile inclinazione al becerismo spirituale, io, per quanto non futurista (risate, insulti), non ho potuto fare a meno di accettare l’invito di Marinetti e di venir qui a far la parte di buffone schiamazzatore dinanzi a tante serie persone (è vero!). Ho già scritto e stampato tutto il male e tutto il bene che penso del futurismo e non voglio ripetermi. Ma resta il fatto importante e fondamentale che in questo momento, in Italia, non v’è altro moto d’avanguardia vivo e coraggioso al di fuori di questo; non v’è altra compagnia possibile e sopportabile per un’anima di distruttore, per un’anima seccata dell’eterno ieri e innamorata del divino domani – resta il fatto gravissimo, signori miei, che tra questi canzonati futuristi vi sono uomini di vero ingegno che valgono assai più dei graziosi scimpanzé che ridon loro sul viso (urli bestiali). Queste ragioni mi son bastate e mi bastano per sfidare l’obbrobrio che può cadere sul mio capo scarmigliato per questo mio gesto di simpatia, e, se volete, di solidarietà (tumulto in platea)”.

Da: Giovanni Papini, “Lacerba”, anno I, n. 5, 1° marzo 1913.

Il pragmatismo magico di Papini

Giovanni Papini ha aderito al pragmatismo con l’obiettivo di trovare una soluzione organica ai vari ragionamenti filosofici e per configurare una filosofia in grado di sostenere le proprie scelte esistenziali. In altri termini, a una vita intesa come missione doveva corrispondere una filosofia del fare. Una filosofia della prassi dunque, che conduce all’analisi della volontà come funzione determinante dell’azione e della credenza, credenza che è regola d’azione quando ci si trova nelle situazioni di dubbio, ponendo nel risultato dell’azione la sua verificazione. Tale questione è affrontata da Papini nel saggio La volontà di credere.

Dalla combinazione di diversi elementi quali il sogno della divinità e della magia, l’ambizione di possedere la realtà e di trasformarla, il pragmatismo diventa magico, perché con la pratica, seconodo Giovanni Papini, si sfugge a tutti gli inganni e a tutti i tradimenti del razionalismo e dell’espressione e con lo spirito si creano nuovi mondi. Urge secondo lui trasformare la realtà, sradicando il rapporto soggetto-oggetto che caratterizzato tutta la filosofia, per fare sì che si possa modificare il mondo solo attraverso il “miracolo”, reso possibile solo dall’«Uomo-Dio» che è cristiano, magico e mistico.

Secondo Giovanni Papini, infatti, l’esigenza della divinità è innata nell’uomo, in quanto egli è insoddisfatto e desidera sempre di più. L’uomo può uscire da questa condizione di angoscia solo attraverso due vie: la rinuncia o il possesso. Ma il metodo della rinuncia è storicamente fallito, e il desiderio di onnipotenza può aprire nuovi orizzonti. Ottenuta l’onnipotenza, l’«Uomo-Dio» non avrà più desideri e di conseguenza sofferenze, ma inizierà a disprezzare le cose per la loro abbondanza e per la loro facilità con cui si ottengono. Morto il desiderio, morta anche l’azione.

Tra le opere più importanti di Papini si ricordano: Il crepuscolo dei filosofi, Un uomo finito, Polemiche religiose, Storia di Cristo, Gog, Santi e poeti, Il diavolo, Sant’Agostino oltre alle numerose opere di politica, filosofia, poesia.


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